Il Comune

Comune di San Pietro in Cariano

Descrizione

Presentazione

Il Comune di San Pietro in Cariano si compone, oltre al Capoluogo, di altre cinque frazioni, ognuna ricca per la sua storia e per la sua tradizione di civiltà: Pedemonte, S. Floriano, Corrubbio, Castelrotto e Bure. La superficie complessiva occupata è di circa 20 kmq.

Il territorio comunale è limitato a sud dalla statale n.12 dell'Abetone e del Brennero che segna il confine con Pescantina. A est il confine con Negrar viene delimitato dalla dorsale di calcari eocenici denominata Masua. A nord vi sono poi Marano e Fumane, mentre a ovest piatti depositi alluvionali, i poloni, segnano il confine con Sant'Ambrogio. Si tratta di un territorio di alta pianura costituito da un'unica formazione marina in cui affiorano calcari giallastri eocenici e marnosi del periodo Luterano, con alture appena accennate. Le zone pianeggianti sono invece di origine alluvionale del Pleistocene. Il territorio è solcato da tre torrenti che scendono da Fumane, Marano e Negrar ed interrompono i terrazzi  di origine fluvio-alluvionale che percorrono tutto il territorio da ovest ad est.

Mappa delle vie


Storia

Il nome "Cariano", che è anche una contrada nei pressi del capoluogo, sembra derivare dal latino tardo Carilianus (= terreno di proprietà di Carilius). Le più antiche tracce della presenza dell'uomo risalgono al Neolitico mentre è ben documentato il villaggio protostorico di Archi di Castelrotto. La zona di San Pietro in Cariano è ricchissima di testimonianze d'età romana e, data la sua particolare posizione al centro della Valpolicella, dovette essere anche in antico rinomata zona residenziale. Resti di abitazioni rustiche romane sono stati rinvenuti in località Ambrosan, a S. Floriano, a Castelrotto e in località Quar. Il toponimo Corrubbio (da quadruvium - incrocio di 4 strade) e il ritrovamento di un miliare ricordano il passaggio della Via Claudia Augusta Padana o comunque di una sua diramazione. Con i Romani si hanno anche le prime testimonianze di cultura enologica: Svetonio ricorda che ad Augusto piaceva molto il vino Retico, lo stesso vino di cui scrissero anche Marziale e Plinio il Vecchio. Si riporta inoltre una famosa lettera di Cassiodoro a Teodorico in cui vengono impartite le istruzioni per procurare il vino alla mensa del re elencandone le qualità. La zona ebbe nuovo impulso al tempo dei fasti di Venezia, città con cui fioriono i commerci. I signori della nobiltà veronese fecero a gara per edificare le loro ville sulle colline del circondario adornandole di splendidi parchi. Sicuramente da visitare è Villa Serego a S. Sofia di Pedemonte, realizzata su disegno del Palladio. Interessanti sono poi Villa Fumanelli a San Floriano, Villa Saibante - Monga e Villa Pullè - Galtarossa a San Pietro in Cariano, Villa Giona - Fagioli a Cengia. Il dominio austriaco non ha lasciato tracce, mentre il notevole sviluppo economico e industriale seguito al secondo dopoguerra ha praticamente raddoppiato la popolazione del comune.


Gastronomia

Non si può parlare di cucina tipica della Valpolicella, se la 'cucina tipica' si deve caratterizzare da piatti nati e tramandati soltanto in questa zona. Tutte le preparazioni sono infatti simili a quelle del territorio veronese in generale. La cucina popolare ha sempre usato i prodotti del luogo e la Valpolicella ha sempre visto una grande varietà di colture e quindi di materie prime, disponibili nell'orto o nel campo di casa. I salumi, come la celebre soppressa, le salsicce ed il cotechino sono molto apprezzati pur non avendo raggiunto la fama ottenuta dai vini. Da sempre in Valpolicella il primo piatto per eccellenza era la minestra: di verdure, con l'aggiunta di patate e fagioli, o il riso con le verdure e cioè con le patate, con le verze, con i piselli, con il sedano, con i porri. Lasagne e tagliatelle, fatte in casa, erano il piatto della domenica seguito dalla gallina e dal manzo lesso. Praticamente sconosciuto l'arrosto che faceva la sua apparizione esclusivamente sulla mensa dei signori o ai pranzi di nozze. Tra le salse ricordiamo: la pearà fatta con brodo, midollo, pane raffermo, il formaggio e tanto pepe, la salsa verde col prezzemolo e l'acciuga, il cren (radice di rafano tritata), la panà, che era pane bollito e condito con un filo d'olio. La polenta accompagnava l'intera giornata: a colazione, veniva abbrustolita sulle braci con la salsiccia, o tagliata a fette nel latte, o cotta nel latte e cosparsa di zucchero (la dimenticata mosa); alla sera veniva servita fresca, quasisempre con il pocio, a volte solo burro abbrustolito e formaggio. La selvaggina era limitata agliuseleti arrostiti con olio, burro e salvia e alla lepre in salmì. Anche i dolci erano pochi e certamente non raffinati. Tra questi la pasta frola, le fritole o le sossole a Carnevale. Nelle festività natalizie appariva il nadalin cosparso di mandorle e noci e a Pasqua le brassadele.

Ultimo aggiornamento: 21/01/2025, 14:47

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